di Emanuele Rauco

Tiziano Sclavi è un grande cinefilo. Lo è sempre stato. Il primo numero della sua creazione più famosa, Dylan Dog, si intitolava L’alba dei morti viventi, con chiarissimo riferimento a George Romero, tanto per mettere le cose in chiaro. Michele Soavi, adattando Dellamorte Dellamore (uno dei suoi romanzi più famosi e forse migliori), ne ha catturato lo spirito anche in quel senso: basterebbe il carrello a stringere sullo chignon di Anna Falchi, che richiama quello analogo sui capelli di Kim Novak in La donna che visse due volte, per cogliere dov’è l’inghippo nella storia d’amore tra il becchino Francesco Dellamorte e la vedova (poi segretaria e poi semplicemente Laura).

Ma non importa: il cuore del film, disprezzato o ignorato all’uscita, divenuto un cult e ora tornato in sala restaurato prima di approdare sul mercato home video, non è nell’intreccio, anzi, potremmo dire che al regista e allo sceneggiatore Gianni Romoli – una vita tra i generi popolari prima di dedicarsi in esclusiva a Ferzan Ozpetek – del plot comunemente inteso interessa fino a un certo punto. Preferiscono lavorare sui personaggi e sulle situazioni che affrontano, con una libertà narrativa e produttiva che pone il film come canto del cigno del cinema di genere italiano degli anni ’70 e ’80, quello in cui Soavi – allievo di Dario Argento – si è formato come assistente e poi come regista.

Dopo aver diretto tre film importanti per il genere nell’attimo del declino, come Deliria, La chiesa e La setta Soavi sente su di sé il peso delle ambizioni (quello era il momento di maggior successo di Sclavi e Dylan Dog) e decide di farsene beffe, prende Rupert Everett, che dell’indagatore dell’incubo è il modello, e lo pone contro ruolo, con un personaggio a tratti sgradevole e grottesco, pur nella sua aura romantica, quello di un becchino che si trova dentro un’epidemia di zombie e, tra un assalto e l’altro, si innamora di una donna che muore e poi forse risorge o forse si moltiplica.

L’immaginario di Sclavi è quello surrealista, perfetto per le possibilità visive del fumetto, anche e forse ancora di più quando si libera dalle gabbie delle tavole e lascia la parola pronta al galoppo (come anche nell’altro suo romanzo di successo, Nero); Soavi deve fare quindi un doppio salto mortale e destabilizzare le aspettative sia degli spettatori horror che vogliono dare un seguito ai brividi dei suoi film precedenti, sia ai fan di Dylan Dog che vogliono un adattamento sotto mentite spoglie. Il risultato è un film difficilmente classificabile, che proprio per questo acquista sapore con il passare degli anni, in cui la vena esistenzialista dell’autore del romanzo trova una sua perversa via dentro un film che non prende nulla sul serio (gli zombie sono un incidente di percorso non il principale conflitto del film; l’ironia in un’opera sclaviana è immancabile) eppure non si fa beffe di nulla, che costruisce una sorta di mitologia beffarda attorno alla deviazione mentale di Francesco, che passa da anti-eroe a pazzo assassino in un attimo, senza scomporsi, senza che il modo di raccontarlo e interpretarlo cambino.

È solo uno dei lussi che il film si concede per sconcertare lo spettatore, tra atti di necrofilia erotica (Anna Falchi al massimo del suo sex appeal) e una testa volante, cantante e mordente, immerso in una dimensione onirica pressante e imprevedibile come il finale sospeso: spira aria del miglior Lucio Fulci, ma anche del Terry Gilliam per il quale aveva diretto la seconda unità in Le avventure del barone di Munchausen in Dellamorte Dellamore, di incrocio di culture e sguardi diversi, di un film che si concede allegramente sbavi, inciampi, goffaggini e che li riscatta con la forza delle sue visioni. Come il cinema di genere in Italia non potrà più fare, perché sarà morto senza resurrezione almeno per un po’ di tempo.